“Un diamante è per sempre”, recitava un celeberrimo spot televisivo degli anni ‘80 e ‘90. Una frase in un certo qual modo veritiera, considerato il valore concreto di un diamante: quando lo si dona, è per omaggiare una persona verso la quale si nutre un forte sentimento, indipendentemente dal fatto che sia d’amore, di amicizia o di affetto.
Sono quattro i fattori, stabili da precisi e rigorosi standard internazionali, che incidono profondamente nella valutazione di un diamante. Per gli addetti ai lavori si tratta delle famose 4 C: Color, Cut, Clarity e Carat, ossia Colore, Taglio, Purezza e Caratura. Tutti questi elementi determinano il valore di un diamante e consentono di stabilire anche l’ammontare economico di un gioiello.
Come si stabilisce il grado di purezza
Di questi fattori, uno, più di altri, incide profondamente sul valore del prezioso: la purezza, come ben sanno tutti i cittadini capitolini che si affidano ai compro oro per trasformare in denaro contante il proprio bene prezioso, trovando la liquidità necessaria per far fronte a spese impreviste o programmate.
Il diamante è una pietra preziosa che si trova in natura e può capitare, durante il processo di formazione del gioiello, che si formino alcune inclusioni o imperfezioni che ne determinano il grado di purezza. In buona sostanza, la purezza del diamante consiste nella classificazione delle impurità e della grandezza riscontrati attraverso una lente a 10 ingrandimenti, come stabilito da una scala riconosciuta a livello internazionale.
Questa classificazione è stabilita da una scala internazionale, che aiuta a comprendere la purezza di un diamante. Quelli più puri, e di conseguenza più pregiati, sono quelli “IF”: si tratta di diamanti puri, che hanno un costo elevato e vengono utilizzati prevalentemente per i cosiddetti “gioielli da collezione”. Si parla sempre di alta gioielleria anche per i diamanti “VVSI1” e “VVSI2”, che hanno delle impercettibili inclusioni verso i bordi del diamante.
Quelli “VVS1” e “VVS2”, invece, hanno delle inclusioni, seppur di piccole dimensioni, visibili al microscopio: la qualità non è elevata come quelle precedenti, ma resta un’ottima soluzione dal punto di vista del rapporto qualità/prezzo. Esistono, poi, altre categorie che variano dalla “SI1”-”SI2” (piccoli inclusioni visibili al microscopio), sino alla “Piquet” (purezza scarsa, inclusioni visibili anche ad occhio nudo, pregio economico assai modesto e scarso)
Brillantezza e purezza sono strettamente correlate?
Trovare un diamante perfetto, però, è un’impresa a dir poco titanica: in tutto il mondo, infatti, solo il 2% viene fatto rientrare in questa categoria. La scala poc’anzi citata, quindi, ha un valore estremamente importante nel definire la purezza e, conseguentemente, il valore economico di un diamante. Vedere quanto è puro un diamante, non è sicuramente semplice.
È un processo piuttosto complesso, in quanto è il meno visibile tra i tanti che incidono sul costo finale di un diamante. Un mito, però, va sfatato: le imperfezioni non devono essere obbligatoriamente considerati dei difetti. Esse, infatti, rappresentano la testimonianza concreta del processo di creazione di un diamante, che ne sanciscono l’autenticità e l’unicità.
Purezza e brillantezza, tuttavia, non sono strettamente correlate: non è detto che una maggior brillantezza corrisponda una maggiore purezza. È il taglio, infatti, che determina la maggior o minor brillantezza di un diamante, al punto che potrebbe oscurare le imperfezioni presenti: la purezza, quindi, determina solo in parte la bellezza di un diamante.
Un altro fattore fondamentale, infatti, riguarda il colore del diamante. Come noto, quanto è più bianco tanto più prezioso risulta il diamante. I colori D-E-F, quelli più spiccatamente bianchi intensi, sono quelli più pregiati, seguiti da quelli catalogati con le lettere G e H (aspetto bianco vivace ma meno intenso di quelli D, E e F).